sabato 8 marzo 2014

Maggio 2002 - Para Clofrenì. Tanzania - L'Afrique c'est chic.




PARA CLOFRENI’

N.-1

TANZANIA

MAGGIO 2002


IMPRESSIONI SU DI UN ITINERARIO CLASSICO DEL MODERNO TURISMO ESOTICO


4       Masai – village

NB : tutte le foto sono in coda. . 16





1          Kilimangiaro e Arusha

La base di arrivo e successiva partenza verso nuove incredibili avventure, che si materializzeranno nella visita ai fantastici parchi nazionali, è la città di Kilimanjaro. Che poi non c’è, se non nel suo aeroporto che ne è l’unica prova di esistenza.
E non tanto perché nascosta dalle nuvole quanto perché la città, che dista qualche decina di Km, è Arusha e non Kililmanjaro.
Il famoso vulcano in pensione è il gioiello delle pianure circostanti.
Furbesca operazione di marketing che indica quale punto di contatto con il suolo Tanzanese un’altisonante meta nota world-wide, e altrettanto world-wide evocante quanto di più naturalisticamente ed avventurosamente esistente in centro Africa. Praticamente l’unica montagna vera che buona parte di chi conosco, me incluso, immagina esistere nel continente.
Sbagliando.
L’impatto con l’ambiente estraneo è dei migliori. Come quando si scende dall’astronave e si scopre che sul pianeta raggiunto si respira aria. Un aggraziato micro aeroporto circondato da giardini fioriti gestito dagli abitanti di una specie di comune dalla gentilezza straordinaria. Comune inteso come forma di aggregazione sociale tipica degli anni 70, e non come agglomerato urbanistico.
Neppure il fatto di avere perso i bagagli può scalfire la sensazione di benessere, pace, e serenità che il piccolo aeroporto infonde.
Tanto profonda da lasciarmi crogiolare per un attimo nell’idea di passarle lì, le vacanze. Ma subito vengo richiamato all’ordine dalla vista del cartello riportante il nostro cognome opportunamente esibito il più visibilmente possibile dal nostro futuro accompagnatore. Il solo ad attendere noi, unici passeggeri sbarcati. Il cartello, nella sua solitaria unicità, assume subito una dimensione grottesca.
Una jeep. Grande. Come deve essere in Africa. O no?
L’accompagnatore non è estraneo al resto del contesto, ed è anch’egli estremamente gentile.
Eppure qualcosa stride. Forse è il mio cinismo che si è messo all’opera, anche se a me pare solo di essere obiettivo, però sono tutti troppo gentili. Il contesto è tutto troppo perfetto. Sembra di essere in una favola in cui il turista è il principe azzurro a cui l’autore non fa mancare nulla di ciò che vuole. A partire dall’essere idolatrato dai “boveri negri” in un contesto da paradiso terrestre. E loro, i “boveri negri”, che sono abituati ad ingegnarsi per sopravvivere, ti danno ciò che vuoi. I dritti, furbi, sono loro e non il turista etnocentrico che piomba lì carico della sua presupponenza.
Se leggesse Barbara, mia moglie, mi direbbe che sono sempre il solito. Ma a me piace essere il solito, e poi un fondamento di verità deve esserci.
Ed infatti.
Quasi immediatamente dopo l’uscita dall’aeroporto dell’Eden, iniziano i 40 Km di strada che portano in città, quella vera. Arusha.
40 km di rifiuti, gente per strada con le loro vacche, biciclette, bambini in divisa da scuola (che non salutano), piccole chiese quasi indistinguibili dagli emporietti di souvenirs, bambini seminudi (che salutano), baracche di fango, paglia e lamiera.
E tu turista, come puoi non capire che il piccolo aeroporto non c’entra un cazzo?
Molto pitoresko, very pitoresko, mentre tutti i teneri virgulti seminudi che fiancheggiano la strada urlano qualcosa, sotto lo sguardo gelido dei grandi, che per quello che capiamo potrebbe benissimo essere “coglioni, coglioni” o meglio ancora “bastardi, bastardi”.
E possiamo forse dar loro torto?
Tale è il disagio, che non ci sentiamo in diritto di scattare nemmeno una foto, che quindi non accompagna la precedente descrizione. Ma in fondo non c’era nulla di diverso rispetto a quanto si vede in qualsiasi reportage su qualsiasi periferia urbana di qualsiasi paese africano. O addirittura, se si prescinde dal colore della pelle, di qualsiasi paese del Sud del mondo.
Nel frattempo la guida è diventata un manichino d’ebano: come se fosse solidamente inesistente non dice una parola, come se volesse lasciarci in balia della nostra estraneità.
Quasi una vendetta.
Fino a che decide di svoltare dove presumiamo esserci una strada che puntuale si apre alla nostra vista dopo due tornatini d’asfalto semipianeggianti. Un taglio color ocra (forse un altro colore, ma ocra suona bene) tra distese di piantagioni di mais, caffè, banani, jungla. Di tutto un po’ a fiancheggiare un fiume di fango definito strada con una buona dose di immaginazione europea e con una normale dose di realismo africano.
Ai margini del fiume di fango, un pubblico annoiato questa volta silenzioso e composto guarda. Guarda noi, con la nostra bella, grande, jeep 4x4. Attende qualcosa, ma ancora non sappiamo cosa. Nessuno ride; che abbiano paura di essere investiti è da escludere perché già presumiamo che si continuerà a procedere a meno di 10 km all’ora.
Che sia allora lo sguardo dell’odio di classe che non sanno neppure di dovere provare? Sembra improbabile.
E allora?
E allora quando la “ strada” inizia a scendere leggermente, ma proprio leggermente, capiamo. Come qualsiasi fiume che si rispetti, anche questo è pieno di rapide. Fango che scorre, buche alte un metro, pezzi di tronchi.
E una jeep bianca 4x4.
Pronta ad affrontare tutto questo come in un rodeo. Al quale il pubblico assiste.
Ecco spiegato (almeno crediamo): siamo il loro divertimento quotidiano. E come dare loro torto?
Inutile negare una certa dose di apprensione, che ancora una volta ci impedisce di documentare fotograficamente quanto sopra, ma in fondo è anche piacevole affidarsi all’immaginazione. O no?
Anche perché in lontananza non è per nulla confortante l’immagine di un trattore che, in una lotta infernale, cerca di procedere in senso opposto al nostro, sbuffando, sbandando, arrancando, rischiando più volte di ribaltarsi e ricorrendo più spesso di quanto immaginabile all’aiuto del pubblico per essere spinto.
Ciò che è poco confortante è che ogni ruota del trattore è alta quanto la nostra jeep, con un battistrada alto un avambraccio che sembra fatto apposta per arpionare quanto di solido possa esserci sotto il fango.
E noi come faremo? Neppure il coraggio di chiedere all’impassibile monumento d’ebano seduto al posto di guida. L’unico conforto viene dal raziocinio: se ci è venuto anche lui, saprà come fare.
E pensare che volevamo girare il paese da soli. Tipo “prendo un’auto e vado”. Ma vado dove?
Qui piove, fa freddo, e non per la temperatura di per sé, ma perché c’è un’umidità che non troveresti neppure in una vasca da bagno. Rischio di artrosi fulminante.
Ma dove cazzo siamo finiti? Questa è Indocina, Tahilandia, Vietnam. Monsoni. Ma in Africa si muore di sete, fa caldo, l’acqua manca.
E invece no, turista qualunquista! Qui il problema è che di acqua ce ne è talmente tanta che scorre per la strada! E se si muore di qualcosa è di freddo, oltre che di tutte le altre cause immaginabili e note. E la malaria.
E ti aspetti che il pubblico ti sorrida, mentre procedi a fatica con la tua jeep sinuosa come un serpente? Forse se torni nella stagione secca! Ammesso che tu abbia le palle per tornarci in questo posto. Di merda. Obiettivamente di mmerda. Pure con le due mm notoriamente confirmatorie.
Un’ora. Un’ora per 5 km. Varie soste forzate, per farsi spingere. Da quel pubblico che lo fa normalmente, come a rimettere in pista il loro divertimento quotidiano.
Finchè un cancello, presidiato da guardie armate, ci si apre e richiude immediatamente alle spalle, separandoci dalla realtà e proiettandoci in un’altra gabbia di dorata perfezione. I lodge, queste curiose oasi di occidentalità, pulizia e progresso  disseminate un po’ per tutto il paese a scopo esclusivamente turistico, oppure come in questo caso, appendici di un attività agricola. Una di quelle piantagioni che vedevamo lungo la strada, ma di estensione non paragonabile a quanto  siamo abituati a vedere nelle nostre microbiche patrie. Ciò che rimane di imperi colonialisti e conquistatori passati. In realtà con il prosieguo del viaggio la sensazione sarà che di imperi colonialisti e conquistatori passati rimanga molto di più, ma fino a questo momento il lodge del caffè basta. In pratica l’agriturismo in scala superiore.
Ed inutile dire che, per quanto cerchiamo di sentirci in colpa per quello che c’è fuori dal cancello, la sensazione che si prova al di qua dello stesso è palesemente confortante. Inutile ogni ipocrisia. Meglio  l’interno ricco, confortevole, curato e servito del lodge, rispetto al pitoresko, umido, malsano, povero e nudo esterno.
Meglio, si. Come documentato di fianco.
Pur con qualche inconveniente legato alla ovvia presenza di zanzare, al freddo, all’impossibilità di accendere il camino nella stanza causa legna impregnata d’acqua, sembra comunque di essere in quella famosa oasi.
La sera a cena, in un contesto e con un servizio da Grand Hotel che a questo punto dopo 4 ore non ci pare più in contrasto con l’esterno, ci troviamo circondati da un gruppo, tipico,  di turisti qualunquisti “molto pitoresko” dai quali mi piace parecchio sentirmi differente. Ma forse a torto dice Barbara. Anche se io non credo. In ogni caso, contrariamente agli stessi mi faccio un punto d’orgoglio del fatto di non compiacermi e vantarmi dell’”avventura” vissuta per raggiungere il lodge.
E secondo me tanto basta. Come mi inorgoglisco all’idea di non essere riuscito a scattare foto, come d’altronde non hanno fatto neppure loro. Certo. Loro filmavano direttamente.
Insomma, l’orgoglio sarà pure un peccato, ma se mi impedisce di ridurre quello che ho visto ad uno spettacolo di cabaret, ben venga.
Quanto sopra ha l’unica utilità di dare un quadro di come funzioni ad oggi il turismo in questo posto, come in tutto il mondo. E dovrebbe fare alzare le antenne a colui che si aspetti di andarci con il senso di solitudine, grandezza e avventura di decenni fa. Certo è ancora vero che è probabilmente più grandioso ed avventuroso di parecchie altre mete, che per altro non conosco, ma con moderazione.

2          Lake Manyara e alture

Sveglia presto, doccia calda per fare scorrere via l’umido della notte, colazione a cinque stelle, e pronti per partire. Con la nostra guida d’ebano che ci attende nella hall puntuale come e più di uno svizzero.
E con un incubo che incombe sulle nostre teste : la strada sarà la stessa?
5 km, 1 ora, fango, buche, tronchi: era la stessa.
Ma ce l’abbiamo fatta e ci dirigiamo decisi verso nuove incredibili avventure!
Previo passaggio per la città di Arusha per conoscere l’agenzia, parlare del tragitto che vogliamo seguire (almeno così credevamo, ma in realtà seguiremo quello che volevano loro), e della mia valigia persa che senz’altro ritroveranno (a detta loro, che non possono ammettere che qualcosa vada storto ad un turista Usdollarizzato).
Se la periferia di Arusha era come nei documentari, la città non è da meno. Con le sue “bidonvilles” che circondano un centro fatto di costruzioni fatiscenti quando non cadenti, strade sterrate, spazzatura, e una bolgia di auto vecchie, persone, confusione che lo popolano.
Tutto al suo posto, come deve essere.
Spiccano due cose : un parco pubblico, ben tenuto, ordinato, verde, con un ruscello in cui i bambini fanno il bagno e dove noi non infileremmo nemmeno un dito di un piede, e l’edificio ONU in cui c’è il tribunale per i crimini di guerra del Ruanda. Bello, grande, pulito, recintato, custodito.
La banale ed istintiva osservazione è del tipo: “ma guarda questi, ma non potevano essere un po’ più modesti e fare qualcosa in più per la città, che so tipo una mensa in più, magari sponsorizzandola un po’ come da noi fanno le aziende responsabili dell’inquinamento con i giardini pubblici. Così, per darsi un’ immagine”.
Ma poi penso che non è molto diverso dal principio per il quale le chiese cristiane dovevano essere l’edificio evocativo della grandezza di Dio anche a dispetto del contesto in cui sorgevano.
Certo però che toccare con mano il principio dello “strabiliare per intimorire e comandare“ a cui noi pure siamo certo sottomessi, ma oramai inconsapevoli, mi fa leggermente vacillare la fiducia nell’organizzazione. In tutte le organizzazioni, forse.
Però siamo qui in vacanza cioè per divertirci!
Comunque io sospendo l’attività fotografica. Proprio non riesco. Mi pare proprio di volermi appropriare dello spirito del posto. A parte il fatto che forse è proibito. E quindi si continua con la tradizionale forma della parola.
Insomma l’impatto è forte. Tutto al suo posto, come deve essere, come ti aspetti. Ma da dentro è diverso. Quando ti ci calano, l’effetto è soffocante. Anche se te lo aspettavi.
Un dettaglio che sarà rilevante nella fase successiva del viaggio, quella a Zanzibar, è che qui, nonostante il contesto di miseria, almeno ai nostri occhi,  siamo contattati da un certo numero di venditori di ciò che si vuole immaginare, ma con una certa discrezione e misura. Non troppo dissimile da quello che succede in certe aree delle nostre città. Il che che non ci prepara affatto all’escalation di accattonaggio che vivremo in seguito.
Insomma, Arusha: 2 milioni di abitanti ci dice la guida. In centro l’Onu, la Coca Cola, le Toyota, i vestiti occidentali. Fuori le baracche, la spazzatura, etc..
Un bambino su tre (mi pare) muore. Tutte cose che si sanno, sono documentate.
Ma quando sei lì ti accorgi che una differenza c’è rispetto ai documentari : quando vedi la Coca Cola, le Toyota, le Vespe Piaggio, i Levi’s, la cioccolata Cadbury,… ti rendi conto che il gioco è proprio al massacro.
I documentari non documentano mai le multinazionali. E ciò non perché ad oggi sia di moda parlare di globalizzazione. E’ che li lo vedi direttamente. Come una volta figliavano per sopravvivere ai pericoli, o alle malattie, adesso figliano per sopravvivere alla povertà. Due milioni di persone che servono a produrne una minoranza (quante 50.000?, 100.000?) che rappresenta un mercato per l’occidente.
Questa è la realtà. Che tutti conoscono, ma che quando sei li tocchi con mano e ti impedisce di fare foto ”very pitoreske”. L’occidente capitalistico sa che più massa produce, più cresce quella minoranza che fa mercato di destinazione dei suoi prodotti, ma che proprio non si capisce come possa fare concorrenza verso l’esterno. Fortunatamente.
E’ tutto più semplice di quanto si creda, forse. E’ tutta una questione di massa prodotta e di relativo controllo. Affinché sia inoffensiva carne da macello.
A rischio di essere accusato di essere il solito (cinico, paranoico, pessimista) sorge addirittura il dubbio che ci sia una certa convenienza ad incrementare il tasso di natalità (vedi la Chiesa con anticoncezionali)  e a ridurre il tasso di mortalità infantile (vedi UNICEF o altri) al fine di buttare nella mischia più carne da macello possibile, che quand’anche non diventi mercato, finirà nel buio di qualche bidonville assolutamente invisibile, inutile ed irrilevante. Concentrata all’esterno del centro della città, come del mondo, per ricevere gli avanzi. Di grazia.
Questo è quello che ho toccato. La parte migliore del viaggio. La più educativa. Almeno finora.
Comunque sia, scrollataci di dosso ogni velleità socio-politica e ricalatici nel nostro protettivo scafandro di qualunquismo turistico, arriviamo alla seconda destinazione prevista dall’inderogabile itinerario vendutoci dall’agenzia. Sempre passando per un territorio colmo di paesaggi messi li per sbaglio da qualche burlone che vuole prendersi gioco di noi facendoci credere di essere altrove. In particolare una verde montagna declinante in una boschiva pianura che si tuffa in un lago che pare il Garda, ma che  invece la guida giura essere tale “Lake Manyara”. E se lo giura lui, noi tendiamo a credergli.
Un altro lodge, questa volta meno impressionante del primo forse perché iniziamo a farci l’abitudine o forse perché essendo lontano dalla città, la campagna riesce a mantenere una dignità che non avevamo percepito prima. Sta di fatto che ci troviamo immersi in un’altra piantagione di caffè, che ci spiegano essere una delle più grandi del paese. Al principio dell’imbrunire avvolti in un insospettabile crepuscolo di montagna. Lunghi filari di piante di caffè cariche di chicchi ancora verdi e di un pensiero che le schiaccia : “ma come fanno a raccoglierlo tutto?”. E la risposta è già nella nostra testa, anche se preferiremmo non saperla. “A mano, è ovvio” tanto è vero che una volta, quando c’erano gli schiavi, era conveniente. Ma adesso, la guida ci spiega che la tendenza è riconvertire a colture più “facili”, tipo mais. Ed infatti all’interno del lodge, oltre al personale, ovviamente locale, gentilissimo e disponibilissimo anche grazie al fatto che siamo gli unici clienti a portare una ventata di “novità”, ecco che alle pareti ci si presenta tutto un mondo di quasi un secolo fa fieramente e nostalgicamente messo in mostra dalla proprietà.
Discendenti dei primi colonialisti tedeschi, o meglio prussiani (credo), del territorio tanzanese (prima che diventasse inglese con non so quale guerra) che espongono con orgoglio un po’ miope le mappe dei confini della loro grandezza oltre che le foto degli antenati ricoprenti cariche di sicuro rilievo, lì come in madre patria, disposte in cerchio attorno all’icona del loro Kaiser di inizio secolo. Chissà quale.
Chissà se anche in Etiopia ci sono piantagioni rimaste di proprietà di qualche italiano che esibisce con fierezza le foto di Mussolini e Vittorio Emanuele (non ricordo mai il numero). Probabile.
Comunque sia, dopo una notte permeata dal sonno più profondo degli ultimi anni, al risveglio, con la luce a svelare tutti i segreti del posto ci si ripresenta un’altra immagine sconfortante. Siamo di nuovo altrove, in un freddo, umido, nebbioso paese che dell’Africa come la immaginiamo non ha proprio nulla.
E iniziamo a dubitare di quello che ci dicono tutti e cioè che siamo in montagna, che il cielo poi si sarebbe aperto, che in pianura è diverso, etc.. Con un pizzico di avvilimento.
Se non fosse per la solita strabiliante vegetazione, che per uno dotato a detta di tutti di un certo “pollice verde” è un bel passatempo. Come testimonia la stella di natale fotografata, che sulla fiducia si prega di credere essere alta circa 3 metri.
E con quella solita sensazione, che con un curioso salto spazio temporale ci riproietta ad inizio secolo (non c’è luce-bisogna accendere il gruppo elettrogeno) e nuovamente nell’umidità della jungla del Vietnam. Chissà dov’è il Marlon Brando di Apocalypse Now.
D’altronde ci diciamo che non ha senso tutto questo etnocentrico stupore: venti anni fa si andava alle isole Eolie per ritrovare esattamente la stessa atmosfera, ma in formato secco.
Comunque infiliamo la solita sequenza doccia, valigie e colazione e siamo pronti per una nuova giornata di incredibili avventure. Speriamo al sole.

3          Parchi : Serengeti e e Ngoro Ngoro

La strada si inerpica per il bordo di una montagna che la guida ci ha spiegato essere il cratere del vulcano Ngoro Ngoro, meta successiva di parte del nostro tour. Jungla tropicale immersa nella nebbia. La cima è a 2.500 (?) metri di altezza e giustifica il clima, ma questo non ci consola per nulla.
Figurarsi quando davanti a noi ci si apre lo spettacolo di questo immenso cratere quasi completamente nascosto dall’alto per le nuvole. Torna subito in mente l’immagine del Kilimanjaro che spunta dal mare di panna sottostante l’aereo, ma che da sotto tale mare è assolutamente inesistente.
Finchè inizia la discesa che già ci pare quella verso gli inferi. Alla fine della quale troveremo di certo Caronte pronto a traghettarci verso l’aldilà, paradisiaco o infernale, del turista qualunquista. Un Club Med ? E invece, dai e dai, la nostra costanza è premiata ed al termine di una lunga discesa tra le nuvole, e dopo qualche tornante di avvicinamento tra basse colline ancora umidamente verdeggianti, si presenta dinnanzi a noi l’ immagine della foto di fianco.
Serengeti National Park.
Quello che ci aspettavamo. Una sconfinata landa desolata, fatta di pietre e sterpaglia. Da togliere il fiato.
Sole. Rovente come deve essere in Africa. Traditore che si nasconde dietro l’aria ancora fresca di montagna. Certo che così descritta viene proprio da chiederselo: “ Ma che cazzo ci sono venuto a fare?”
Poi odori. Di cosa? Di certo inconsueti.
E infine animali. Questa sì che è una sorpresa.
Ma quante cazzo di gazzelle ci sono?
Incurante della quantificazione e con un sorrisetto ironico percettibile anche attraverso la sua nuca, la guida sancisce solo : “Thompson’s Gazelles”.
Ah beh! Questo cambia tutto! Se sono Thompson’s allora è normale che siano disseminate per tutta la pianura come pulci sulla schiena di un cane.
E poi chi sarà mai questo Thompson e cosa se ne farà di tutte ‘ste gazzelle?
Il tutto mentre la jeep scorre fluida lungo la strada sterrata che taglia infinitamente in due la pianura.
Di fianco il panorama cambia continuamente, ma solo in termini di configurazioni di vita animale.
I branchi si sostituiscono, le gazzelle non sono tutte di Thompson’s, ma gli altri nomi ci sfuggono quasi subito. In ogni caso le altre specie sono tutte più grandi della prima, che forse proprio perché incontrata per prima e più minuta diventa la nostra preferita.
A volte zebre un po’ sfocate, siamo pur sempre in movimento, si alternano in una configurazione tipica con gli gnu.
A volte gnu da soli ci tagliano la strada.

A volte gnu e basta, senza zebre e senza tagli di strada, stanno li di fianco brucando, camminando a volte impegnandosi in scaramucce tra maschi. Insomma offrendoci un sempre mutevole spettacolo di cui potremmo non stancarci mai. C’è sempre qualcosa da vedere. Almeno per oggi.
E poi quell’odore, quell’odore. Di cosa… E’ sconosciuto, mai sentito nulla di simile. Intenso, acre? No, è più come se fosse… Odore di terra, forse? Ma no, così forte, no. E allora? E allora, voilà!

Due milioni di gnu, seicentomila zebre, chissà quante gazzelle, non solo di Thompson. L’odore è il loro che sono tutti raggruppati in una piccola fetta di questi immensi parchi nazionali grandi quanto le nazioni europee a cui siamo abituati.
Fetta piccola per modo di dire, perché poi si perdono a vista d’occhio. Anche se sembra che abbiano tutti una direzione. Un mare grigio-marrone, che pare seguire un più piccolo lago di passaggi pedonali opportunamente messi li proprio ad indicare la strada agli gnu.
La guida si concede. Forse intenerito dalla mia domanda : “Certo che le zebre sono proprio degli asini. Ma a cosa servono?”. Sottintendendo l’incomprensibilità della loro funzione nell’ecosistema ed una sorta di gigantesca burla evoluzionistica (600.000 pagliacci dell’evoluzione bicoloured).
Ed invece tutto è al proprio posto, le zebre hanno un ruolo fondamentale. Che stanno svolgendo proprio ora che le incontriamo. Sono loro che guidano la migrazione. Sono loro che tracciano la strada a tutta la savana in direzione dell’acqua quando la stagione si fa secca.
Ah! Vorrei sprofondare.
Una cosa è certa, e la anticipo a questo punto anche se la considerazione, nella realtà, mi sorgerà dopo alcuni altri giorni.
Il re della savana non è il leone, né il leopardo, né l’elefante etc,…
Il vero sovrano è senza dubbio lo gnu.
Due milioni di re, che si aggirano per la steppa in cerca di cibo e acqua ed ai quali un vitello dato in pasto ad un leone non fa un baffo.
Anzi quando incontreremo il leone che ne mangia una carcassa come qualsiasi altro predatore o “pulitore” intento a nutrirsi di “cacciagione” o rifiuti, l’unica sensazione che ne riceveremo sarà di compassione.
Che vita di inferno, sempre in mezzo a tutto quel ben di dio che a volte viene loro concesso solo perché così vuole lo “spirito che tutto penetra”.
Dopodiché tutto ci si presenta esattamente come sperato, e quasi come parrebbe programmato. Anche se a fine tour ho dovuto ammettere l’improbabilità di tutta questa programmazione “animale”.
Insomma mi sa proprio che  è tutto vero.
Come in “ci son due coccodrilli e un orangu’tan…”, cosa c’è ?
Leoni che sonnecchiano annoiati a due metri dalla jeep.
Iene e avvoltoi che si contendono una carcassa di chissà cosa.
Sotto lo sguardo dei meno intraprendenti.
O dei meno dotati, perché qui nulla è affidato al caso.
Tutto segue la logica di adattamento ed evoluzione.
Come alle Galapagos. Il paradiso di Darwin è qui.
Comunque ancora : giraffe maschi intente in una prova di forza. Sotto gli occhi del terzo incomodo,

che decide di non essere più spettatore, e di aggregarsi in un “triangolare” Mentre gli altri membri del branco restano concentrati a farsi i fatti propri. Voltati decisamente dall’altro lato.
poi ancora, in ordine sparso per indovinare chi è cosa) : bufali depressi per la solitudine, aquile che si sono perse, ippopotami di pietra,  
ippopotami vivi, lucertole punk, turisti idioti, gazzelle “non-thompson” (esistono solo due specie in effetti: quelle T. e quelle non-T), sciacalli sciacallanti, dik-dik sciacallati (stessa foto; dik-dik=gazzella bonsai), uccellini Versace, mangusta infotografabile ( per la sua velocità).
Jeep allo stato brado ripiene di turisti in pausa pranzo protetta dalle aquile scippatrici, fenicotteri rosa, bufali depressi per la fuga del loro compagno iniziale, ghepardo da passeggio incurante del branco di jeeps o in sfilata solitaria 
More gazelles o forse antilopi? chi si ricorda, ma comunque servite su sfondo di bordo di cratere, lago increspato di fenicotteri e savana ngoresca, archeologa demente con il suo gregge di dalmata da tè (in orizzontale per cause tecniche), babbuini a riposo.
Tutti in fila per tre. O meglio per due, data l’impaginazione. E ad onor del vero incontrati per lo più in Serengeti Park, ma anche in Ngoro Ngoro e Manyara.
E qui sciorinati solo per potersi concedere i successivi commenti. Il primo dei quali è senz’altro quello legato al ribadire che non c’è proprio nulla di combinato.
E’ tutto vero.
All’inizio il dubbio ti si insinua.
Si, insomma, quando vedi parecchi leoni che sonnecchiano a pochi centimetri dalla tua jeep, o ghepardi che ciondolano rimbambiti in mezzo la traffico, o il leopardo accasciato su un ramo di un albero (manca la foto perché era controluce – quasi protesto con la direzione parchi che non mi ha fatto trovare un leo in posa), è inevitabile chiedersi se non siano drogati.
O perlomeno è inevitabile per un giovane cinico e vecchio disilluso dietrologista.
Poi con il passare del tempo e con il succedersi degli incontri, inizi a convincerti che non è possibile perché:
  1. siamo i soli turisti (è bassa stagione) e per quanto privi di scrupoli possano essere gli abitanti del paese, è più probabile che lo siano quando c’è tanta gente.
  2. si comportano così tutti gli animali e quindi è davvero più verosimile che si siano abituati a ‘sti quattro deficienti che li vengono a guardare. Tanto che alcuni di essi ti concedono uno show che pare fatto apposta per soddisfare il tuo desiderio di interazione da brivido veritiero. E normalmente sono le aquile, che vengono a scippare il cibo dalle mani ai turisti, a volte con qualche danno da artigli che strappa nasi o dita a chi non segue le regole delle guide. E non credo che siano controfigure che si fanno artigliare le appendici. A meno che non siano molto ben pagate…
Ma soprattutto i Lefanti.
Meglio noti come elefanti, ma altrimenti nominati con licenza poetica utile a garantire la suspence delle rivelazione.
In pratica capita che li incrociamo sulla nostra via.
E loro non mancano di farci capire che è la loro via.
Prima un piccolo, un po’ ridicolo, ci si para davanti a orecchie spiegate e proboscide arrotolata sulle zanne, a bloccare la strada.
La guida rimane sulla sua posizione.
Poi dopo un po’ di tentativi a vuoto del piccolo arriva la madre. Che caccia il piccolo e questa volta, mentre ci squadra di traverso, non ha nulla di ridicolo.
Tanto da intimidirmi ed impedirmi di scattare le stesse foto frontali che avevo fatto al piccolo.
La mamma si para davanti e barrisce finché non indietreggiamo (la guida non fa più lo spiritoso) e dopo un balletto di una mezz’ora di avanti e indrè (perché la guida l’aveva presa sul serio, ed era diventata un sorta di questione personale), l’ultima carica della femmina è più decisa e ci rendiamo conto che e meglio un’onorevole ritirata di una precipitosa fuga.
Insomma cambiamo strada, il che ci pare di per sè una testimonianza di veridicità.
D’altronde l’elefante ci conferma la realtà e l’onestà della situazione il giorno dopo.
Questo è grosso, ma quando lo avvistiamo in lontananza non lo sappiamo.
Però si intuisce che naviga nella savana seguendo una rotta precisa.
E’ diretto chissà dove, ma noi ci piazziamo sulla sua rotta.
O meglio lo fa la guida con la jeep farcita del suo carico di noi due.
Un attimo di dubbio mi coglie : “chissà se è un altro giochino con un altro elefante semi-ammestrato”. Dimentico del fatto che la volta precedente il dubbio si era dissipato sotto gli attacchi della femmina. Tanto da impedirmi di scattare più foto.
Passa il tempo. L’elefante non ha fretta. Noi nemmeno.
Far west. Duello sotto il sole.
Duello che si avvicina al ritmo caracollante dell’animale. Che dato il suo caracollo sembra sempre vecchio, per definizione.
Ed a maggior ragione questa volta. Quando è a tiro d’occhio ci rendiamo conto che ha delle zanne mai viste, nemmeno in TV (che peraltro è l’unico posto dove abbiamo visto delle zanne. Perlomeno attaccate alla testa di un animale). E che quindi deve essere proprio vecchio.
La guida conferma : “almeno 50 anni” mi pare che dica, che per un elefante devono essere tanti . E credo lo sappia anche lui, che ci inzia a guardare con stanca rassegnata rabbia : “che ci fate sulla mia strada? Adesso mi costringete a mettermi i panni della belva. Alla mia età! Ma per favore!”.
E mentre si fa tutte queste riflessioni, inzia il rito che abbiamo già conosciuto. Inizia a sfregare, attorcigliare, arrotolare, la proboscide sulle e contro le zanne. Quasi come se si sfregasse le mani.
Fino a che l’età e la saggezza, gli consigliano di ignorarci, come se fossimo una mosca. Nel frattempo la mia capacità di reporter si è congelata, nonostante i 30 gradi, come con l’elefante precedente. Una lievissima correzione di rotta lo porta a passare appena dietro la macchina, dove d’improvviso si blocca.
Volta la testa, ci guarda benevolmente severo, poi allunga la proboscide delicatamente e ci da un buffetto all’altezza della ruota posteriore destra.
Sembra il buffetto di un padrino deciso a concedere la grazia, prima ed ultima, ad un picciotto che ha sgarrato.
Poi riprende incurante della  nostra nullità e di quello che è successo.
E quando è abbastanza lontano in tre ci guardiamo, tiriamo il sospiro di sollievo che avevamo in canna e scoppiettiamo in una contratta e sommessa risata liberatoria: chissà mai che ci senta….
E se non è vero questo….

Manca solo l’ultima tappa ( o meglio la penultima dato che l’ultima è già stata accennata e forse risulta collegata alla penultima se non altro in termini di vicinanza geo-stradale.
La gola di Oldupai, quella con i reperti archeologici scoperti dall’archeologa inglese o tedesca, venuta qui in viaggio di piacere con il suo stuolo di dalmata e masai, come se fosse in Costa Azzurra).

4          Masai – village

La guida ci ha più o meno illustrato quanto serve.
Tribù fiera.
Di una sorta di guerrieri-pastori.
Vittoriosi in passato sulle altre per occupare i pascoli migliori e maggiori.
Patriarcale: il ruolo delle donne è fare figli e costruire le capanne.
Occupano la parte di suolo maggiore del paese.
Sono semi nomadi nel senso che migrano quando non c’è più pascolo o acqua.
La terra è sacra e quindi non coltivano.
E’ stato loro concesso di vivere nei parchi secondo le loro usanze. Pastorizia nomade, villaggi di terra e legno velocemente cotruibili e abbandonabili. Unica eccezione la scuola dell’obbligo, che devono comunque fare.
Molto apprezzati nel paese come “guardie giurate” armate di bastone, proprio per la fierezza ed il coraggio, spesso fanno degli stage di qualche mese nella presunta civiltà per guadagnare qualcosa, poi tornano al villaggio (che chissà come fanno a trovare se è vero che sono nomadi). Le sperimenteremo anche noi, non senza inquietudine, nei lodges futuri.
Impossibile trattenere un commento o perlomeno un pensiero all’idea che siano parte integrante dei parchi: “come gli animali” .
E un’inevitabile, etnocentrica e razzista vocina ci dice : “poveretti”. Chissà come fanno ad avere contatti con la civiltà (scuola, lavoro) e poi a tornare indietro.
Finchè la guida ci spiega che a lui fa piacere portarci i turisti perché li aiutano, e loro hanno bisogno.
Un villaggio vale l’altro.
Come avevamo sospettato da un po’, lui è di orgine masai. Quello che non avevamo capito è che, come tutti i masai, si sentiva molto più furbo di noi. Ma anche a questa incomprensione avremmo posto rimedio di li a pochissimo.
Dato che un villaggio vale l’altro, ci fermiamo in quello più vicino. Con un certo disagio da parte nostra quando veniamo assaliti da sciami di mosche di provenienza vaccina e semi-sciami di “mosche-bambini” vaccini di per sè. Adeguatamente istruiti, ma ciò lo capiremo dopo.
Una sensazione di scomodità ci conquista : gli sguardi di tutti, capre incluse perché le vacche sono al pascolo, ci ricordano che siamo veramente fuoriposto se non fosse per la nostra missione umanitaria sotto l’egida dell’Onu-guida.
Poi arriva il capo con il quale la guida confabula brevemente. Ci si presenta molto ossequioso, come non dovrebbe essere, se non fosse per la riscossione che deve fare.
Ci aspettavamo una popolazione fiera e chiusa nelle sue abitudini.
Questo parla inglese, pensa ai dollari e non facciamo nemmeno in tempo ad avvicinarci all’ingresso della porta, che compaiono da dietro un angolo i danzatori, che però è impossibile a questo punto non considerare “pseudo” o “falsi”.
Eh si, perché oltre ad essere uno spettacolino preorganizzato, questi ridono tutti mentre ci guardano e parlottano.
Ci vuole poco a capire o perlomeno a supporre che ci stanno prendendo per il culo.
Insomma, la sensazione di poveri sottosviluppati scompare, loro vivono così, e d’improvviso ci pare di essere noi i sttosviluppati da fregare.
Noi troppo naive, loro troppo furbi. Comunque un’esperienza. Accompagnata anche da una certa paura all’idea che sgozzino una capra per noi per darci del latte fresco, magari misto al sangue della capra stessa. Ma fortunatamente il bussiness-man che è nel capo capisce che non c’è bisogno, vogliamo solo andare via, e che una capra è sempre una capra. E i dollari li hanno avuti.
Strano, per noi, non essere al centro dell mondo. Essere noi quelli diversi, oggetto di scherno e derisione. Quelli sfruttati. E’ comunque qualcosa a cui non siamo abituati.
L’unico che pare mantenere la dose di integralismo masai che ci aspettavamo è un ragazzino, che ancora non è stato erudito nell’arte dell’impapocchia-turista, e che non è per nulla contento di vederci lì.
Ci minaccia con un bidoncino per la raccolta del latte di capra.
Il capo ci obbliga a visitare una delle sue capanne (una per ogni moglie) e ci fa le domande ad effetto per il turista “very pitoresko” tipo “come fate ad avere una sola moglie” o “a vivere sull’asfalto”.
Fino a che la tensione inizia a salire a causa di un tentativo di venderci l’ennesimo braccialetto. Mi salta il nervo: e spiego al capo che non deve esagerare, perche noi abbiamo capito la lezione che loro non sono scemi, ma altrettanto vale per lui, che deve capire che non tutti i turisti sono idioti in balia della loro guida.
Decido che è ora di andare e finalmente andiamo via. Con sollievo.
Insomma, il famoso razzismo etnocentrico, seppur latente, ci si è ritorto contro in questo mare ancestrale di terra e sterpaglie in cui quelli fuori posto siamo sempre noi.
Poveri illusi occidentali del benessere, convinti di essere il centro del mondo. Addirittura nei “lodge” la sensazione è che ti trattano così bene come ti asbetti dal bovero negro, ma in fondo ti danno del fesso.
Come quando la nostra guida si sbottona e ci racconta gli aneddoti della turista che vuole fare la foto seduta tra le corna del bufalo, o del turista americano ex-marine super attrezzato, che si perde nel mezzo della savana sotto lo sguardo benevolo della sua guida che lo lascia fare.
O infine come mi confida il cameriere alle 6.00 di mattina, quando ancora non c’è nessuno ed io gli chiedo chi cazzo è che beve sciampagna a colazione. E lui mi risponde: tutti.
Probabilmente Per concedersi il gusto coloniale di una settimana da lord inglese in battuta di caccia.
Fino a che il cameriere si lascia andare e aggiunge :”così poi escono e vanno nel parco e sono talmente ubriachi che non vedono nemmeno un animale.

La sua piccola rivincita.








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